Donato Ogliari, Tempo e Spazio – Alla scuola di San Benedetto
La sala capitolare o “capitolo”
Nel mondo monastico benedettino la sala capitolare, o “capitolo”, è così chiamata perché un tempo i monaci vi convenivano quotidianamente, dopo l’ora liturgica di Prima, per la lettura e la spiegazione di un capitolo della Regola di Benedetto.
Il termine “capitolo”, utilizzato secondo questo significato, e tuttora in uso, sembra fare la sua comparsa a partire dal sec. VIII, in età carolingia, quando con tale termine si inizia a designare un locale apposito nel quale la comunità monastica si radunava non solo per ascoltare la lettura della Regola e la parola dell’abate, ma anche per discutere su questioni riguardanti la vita quotidiana della stessa comunità. Da allora, per via delle attività significative che vi si svolgono, la sala capitolare ha assunto una dignità che è seconda solo alla chiesa/oratorio. Di fatto, si tratta di uno spazio che riveste realmente una grande importanza nell’organizzazione monastica in quanto lì si vivono alcuni dei momenti cruciali della vita della comunità, come, ad esempio, l’elezione dell’abate. Nella sala capitolare, poi, si eleggono i decani (i monaci che compongono il consiglio ristretto dell’abate) e si fanno gli scrutini per l’ammissione di un nuovo candidato alla professione monastica temporanea, o di un professo temporaneo a quella solenne e definitiva.
Se volessimo condensare il significato della sala capitolare, potremmo definirla come il luogo del dialogo. È la sede in cui i monaci si confrontano sulle varie questioni che riguardano l’andamento della vita comunitaria, siano esse di grande o minor rilievo. Che si tratti di un parere vincolante o consultivo – per il quale cioè la decisione finale è demandata all’abate – la parola viene in ogni caso concessa a tutti, senza distinzioni di età o di ruolo, perché «spesso il Signore rivela a un giovane ciò che è meglio».
Grazie alle riunioni comunitarie, il capitolo è uno dei luoghi dove meglio si manifesta il cuore della comunità. Lì si può percepire e toccare con mano la sua maturità, la qualità della sua adesione al progetto che il Signore ha su di essa e il desiderio dei singoli monaci di crescere insieme come «un cuor solo e un’anima sola» (cf. At 4,32). Lì si sperimenta la capacità di incontrare l’altro e si impara l’arte dell’ascolto come presupposto al dialogo, condotto e vissuto con sincerità e franchezza all’interno del cosiddetto “cerchio fraterno”. Lì si impara ad accogliere sempre più e meglio il fratello pur nella diversità di opinioni. Lì i monaci sono stimolati a non lasciarsi irretire dalla tentazione di un individualismo talora gretto, e fors’anche parassitario, e ad accogliere la logica della condivisione che nasce dal desiderio di “camminare insieme”. Lì le esortazioni e le correzioni impartite dall’abate attendono di cadere in un cuore umile e disponibile. Lì si può verificare la centralità o meno del Cristo nelle decisioni che la comunità è chiamata a prendere, e il grado di reciproca fiducia che sta alla base e sostiene il processo decisionale comunitario. In una parola, la sala capitolare richiama l’obbedienza come capacità di ascolto, di condivisione, di discernimento e di collaborazione responsabile, alla luce della fede.
Se la chiesa/cappella è il luogo-simbolo nel quale i monaci imparano a “pensare come Cristo”, la sala capitolare è il luogo nel quale si apprende a “pensare con i fratelli” e ad accettare volentieri ed umilmente le decisioni che vengono prese comunitariamente. Anche quando è chiamato a rinunciare a qualche personale preferenza, il monaco lo fa animato da una grande libertà interiore, conscio che quel che egli apporta alla discussione e alle decisioni attraverso il proprio personale contributo è sempre meno importante di ciò che, nel confronto dialettico rispettoso e sincero, si matura nel “cerchio fraterno”.